Articolo pubblicato su Ius in Itinere in data 18/12/2020.

1. Il caso.

Con una recente pronuncia[1] di notevole interesse, la Corte di Cassazione si è occupata di un caso estremamente peculiare (ma tutt’affatto nuovo alle cronache giudiziarie), in cui un naturopata prescriveva ad una paziente oncologica cure naturali dall’esito infausto.

In particolare, la persona offesa, a seguito di diagnosi di sospetto tumore al seno, si era rivolta all’imputato, il quale le aveva prescritto una terapia a base di diete, terre, fanghi e decotti naturali, distogliendola per diverso tempo dalle terapie tradizionali  che, in un primo tempo, venivano rifiutate dalla donna; soltanto nel 2005, a cagione di un peggioramento delle condizioni cliniche e di diagnosi di tumore alla mammella al quarto stadio con metastasi diffuse, parte lesa si sottoponeva alle cure del caso.

I cicli chemioterapici, ormai ritardatari, non sortivano l’effetto sperato e la donna pertanto decedeva nel 2006.

Il naturopata, dunque, veniva rinviato a giudizio con l’accusa, tra le altre, di omicidio volontario.

La perizia del medico legale evidenziava come le terapie previste dal protocollo medico, se messe in atto sin dalla prima diagnosi (sospetta massa tumorale per la quale si indicava la necessità dell’asportazione chirurgica) avrebbero conseguito con certezza la guarigione. Il decesso, in conseguenza, veniva determinato dal ritardo terapeutico, unitamente alla dieta seguita dalla donna su consiglio dell’imputato: tali condizioni avevano prodotto l’ingrossamento della ciste e la diffusione del tumore, sino a provocare la morte della vittima.

Constatata l’esistenza del nesso causale, i Giudici di prime cure escludevano l’esistenza di un dolo di omicidio e riqualificavano il fatto ai sensi dell’art. 586 c.p., essendo la morte della persona offesa conseguenza del delitto di esercizio abusivo della professione medica: evento, quello del decesso, che appariva ragionevolmente prevedibile dall’homo eiusdem condicionis et professionis. Veniva quindi pronunciata sentenza di non doversi procedere per essere il fatto, all’effetto di tale qualificazione giuridica, estinto per prescrizione.

La Corte d’Assise d’Appello di Bologna, in seguito, confermava la sentenza di primo grado. Sicchè il Procuratore Generale e la parte civile proponevano ricorso per cassazione, dolendosi in particolare dell’errata qualificazione giuridica del fatto che, secondo i ricorrenti, avrebbe dovuto inquadrarsi nel diverso reato di omicidio volontario, commesso con dolo eventuale.

La pronuncia in oggetto, ordunque, si concentra precipuamente sull’analisi della figura del dolo eventuale.

2. Brevi cenni sull’art. 586 c.p.

Prima di procedere all’analisi della sentenza in oggetto, occorre premettere brevi cenni sulle fattispecie interessate, ed in particolare sul reato di cui all’art. 586 c.p. e, più diffusamente, sul dolo eventuale.

L’art. 586 c.p., rubricato “Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto” testualmente afferma: “Quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell’articolo 83, ma le pene stabilite negli articoli 589 e 590 sono aumentate”.

Trattasi di norma di chiusura del sistema e di portata residuale, applicabile ogniqualvolta il reo commetta un delitto doloso e, per l’effetto di ciò, realizzi, quale conseguenza non voluta, i reati di cui agli articoli 589 e 590 c.p. Si tratta di una fattispecie che traduce, in concreto, una divergenza tra il voluto ed il realizzato: ciò che l’agente ha voluto è il delitto doloso, ma ciò che ha realizzato è l’evento morte o lesioni, causalmente collegato al predetto delitto doloso.

Trattandosi di disposizione di portata residuale, l’art. 586 c.p. non trova applicazione tutte le volte in cui esistano apposite norme incriminatrici che ricolleghino alla morte o alle lesioni, conseguenti ad uno specifico delitto, conseguenze sanzionatorie. E’il caso, ad esempio, dei delitti aggravati dall’evento, dell’omicidio preterintenzionale, ovvero della specifica disposizione, da ultimo introdotta, di cui all’art. 452 ter c.p., relativa alla morte o lesioni come conseguenza del delitto di inquinamento ambientale.

Oggetto di acceso dibattito è stata, per lungo tempo, la natura giuridica dell’art. 586 c.p. Attesi i chiari riferimenti, all’interno della norma, ad una responsabilità per colpa, ci si è chiesti a che titolo dovesse essere addebitato all’agente l’evento morte (o le lesioni) quale conseguenza del delitto doloso.

Un primo orientamento interpreta l’elemento soggettivo in parola come “colpa da inosservanza della legge penale”: secondo questa tesi, il sol fatto di aver commesso un delitto doloso, dal quale derivi l’evento previsto dall’art. 586 c.p., radicherebbe la colpa necessaria all’integrazione della fattispecie; ciò a cagione della portata letterale dell’art. 43 c.p., il cui enunciato “inosservanza di leggi” (quale ipotesi di colpa specifica) andrebbe riferito anche alla violazione della legge penale.

Un secondo orientamento, in modo non dissimile, si accontentava di una “prevedibilità in astratto” dell’evento morte o lesioni, quale conseguenza del delitto doloso.

Sennonchè, tali opzioni interpretative non potevano essere in alcun modo condivise. Le medesime, invero, radicando la colpa in una inosservanza della legge penale (presente in tutti i casi di violazione dell’art. 586 c.p.), ovvero accontentandosi della mera prevedibilità in astratto dell’evento, realizzavano una “frode delle etichette”trasformando la responsabilità per colpa, prevista dal legislatore, in un’ipotesi di responsabilità oggettiva.

Sul punto, dunque, si è sviluppato un ulteriore orientamento, consolidato a seguito di una nota sentenza della Cassazione a Sezioni Unite, in tema di morte dell’assuntore di sostanze stupefacenti, secondo la quale: “L’unica interpretazione conforme al principio costituzionale di colpevolezza è quella che richiede, anche nella fattispecie dell’art. 586 c.p., una responsabilità per colpa in concreto, ossia ancorata ad una violazione di regole cautelari di condotta e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità, in concreto e non in astratto, del rischio connesso alla carica di pericolosità per i beni della vita e dell’incolumità personale, intrinseca alla consumazione del reato doloso di base[2]”.

Tale opzione ermeneutica appare l’unica accettabile, in quanto non solo è rispettosa del principio di colpevolezza, ma anche della littera legis. Ed invero, il chiaro riferimento all’art. 83 c.p., posto all’interno della norma in esame, non può non ancorare l’evento morte o lesioni ad un coefficiente colposo, atteso che la figura dell’aberratio delicti rappresenta pacificamente un’ipotesi di responsabilità per colpa.

La giurisprudenza richiede dunque, ai fini della configurabilità dell’art. 586 c.p., l’esistenza della “normale” colpa in capo al soggetto agente; vi è tuttavia parte della dottrina che propone una tesi alternativa, affermando che l’evento previsto dalla norma citata debba essere ancorato ad un coefficiente di “prevedibilità in concreto” dell’evento previsto dall’art. 586 c.p., piuttosto che alla classica colpa del diritto penale. Le rimostranze muovono dall’assunto secondo il quale non sarebbe possibile parametrare la figura dell’agente modello, elemento necessario ai fini della dimostrazione dello scostamento della condotta del reo dalle regole cautelari, ad un’attività già in re ipsa penalmente illecita (secondo tale orientamento si arriverebbe all’assurdo di verificare, ad esempio, se lo spacciatore, nella cessione di sostanze, si sia comportato da “spacciatore modello”).

3. Il dolo eventuale

La controversa figura del dolo eventuale rappresenta uno dei più interessanti ambiti di discussione dell’intero diritto penale.

Esso rappresenta una delle tre “gradazioni” dell’intensità del dolo (insieme al dolo intenzionale ed al dolo diretto): in particolare, rappresenta la versione “più sfumata e di confine” del dolo e, per certi versi, la meno grave.

Per il principio di equipollenza delle forme di dolo, di regola, il dolo eventuale è sufficiente ad integrare l’elemento soggettivo del delitto (salvi i casi in cui la disposizione di parte speciale richieda un coefficiente psicologico più elevato: si pensi, ad esempio, ai reati di calunnia o di abuso d’ufficio).

Il punto cruciale, ed oggetto di acceso dibattito, di tale fattispecie è rappresentato dalla linea sottile che lo separa dalla colpa cosciente, o con previsione, circostanza aggravante comune prevista dall’art. 61, n.3, c.p., con la quale il dolo eventuale condivide l’elemento rappresentativo dell’evento. Se, ordunque, la rappresentazione dell’evento, primo requisito del dolo, è in tale ultima ipotesi elemento comune alla colpa (con previsione), come distinguere le due fattispecie?

La questione appare di enorme rilevanza pratica, poiché la riconducibilità del delitto al dolo o alla colpa, in ipotesi “di confine”, determina importantissime conseguenze sostanziali, quali la rilevanza penale o meno della condotta o, comunque, enormi differenze dal punto di vista sanzionatorio.

Ai fini della distinzione dei due stati soggettivi in esame, la giurisprudenza più risalente affermava che il reo versasse in dolo eventuale qualora avesse accettato il rischio della verificazione dell’evento[3]. Viceversa, la colpa con previsione sarebbe stata integrata qualora l’agente, pur prevedendo l’evento, ne avesse mentalmente escluso la sua verificazione, tendenzialmente sopravvalutando le proprie capacità di evitarlo (celeberrimo l’esempio delle lesioni cagionate dal lanciatore di coltelli, convinto di poter evitare l’evento e, dunque, giammai in dolo).

La dottrina contestava, a ragione, la portata interpretativa di tale orientamento. Interessante il rilievo critico mosso dalla scuola milanese, secondo la quale tale opinione “(…) è contra legem: ponendo ad oggetto dell’accettazione non già l’evento (la morte di un uomo), bensì il pericolo del verificarsi dell’evento (il pericolo della morte), (la tesi in parola, ndr) trasforma i reati di evento in reati di pericolo del verificarsi dell’evento[4]”.

La teoria dell’accettazione del rischio, peraltro, appariva non convincente anche per ulteriori rilievi: l’elemento cardine del dolo, al fine di distinguerlo dalla colpa con previsione, è l’elemento della volontà: e proprio tale ultimo requisito deve essere maggiormente valorizzato nei casi “limite”; l’evento, infatti, deve essere sempre voluto dall’agente, e non appare sufficiente la mera accettazione di un rischio. Ciò porterebbe ad un ingiustificato ampliamento della sfera applicativa del dolo eventuale.

La linea di demarcazione tra dolo eventuale e colpa cosciente è stata oggetto, visto il contrasto giurisprudenziale registratosi sul punto, di una delle più importanti pronunce della Cassazione a Sezioni Unite degli ultimi dieci anni: ci si riferisce, chiaramente, alla sentenza relativa al caso ThyssenKrupp, ossia al caso dell’acciaieria torinese in cui divampò, nella notte tra il 5 e il 6 Dicembre 2007, il terribile incendio che costò la vita a sette operai.

La Corte, con tale pronunciamento, ha avuto l’indubbio merito di operare una chiara linea di confine tra le due fattispecie, rigettando la teoria dell’accettazione del rischio e aderendo alla diversa teoria della volizione: “Il dolo eventuale ricorre quando l’agente si sia chiaramente rappresentato la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi; ricorre invece la colpa cosciente quando la volontà dell’agente non è diretta verso l’evento ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l’evento illecito, si astiene dall’agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo[5]”.

Con tale principio di diritto, ormai consolidatosi anche nella giurisprudenza successiva e più recente, appare evidente il superamento della precedente linea interpretativa. Il dolo eventuale, infatti, richiede un quid pluris rispetto alla mera accettazione del rischio; ciò che l’agente deve accettare è proprio la verificazione dell’evento concreto, attraverso una piena adesione allo stesso, nonostante non rappresenti il fine ultimo dell’agire del reo, né appaia una conseguenza certa delle sue azioni. L’evento deve necessariamente essere messo in conto, a seguito di un consapevole bilanciamento di interessi in gioco che conduca il reo a determinarsi ad agire in ogni caso: soltanto in questo modo è possibile affermare che l’evento sia voluto, ed ordunque trasferire l’imputazione soggettiva nel fuoco del dolo. La colpa con previsione, al contrario, sarà integrata qualora l’agente, pur prevedendo “in maniera vaga ed alquanto sfumata[6]” l’evento delittuoso, o ne escluda la verificazione, ovvero lo cagioni attraverso un atteggiamento colposo, senza che la volontà di realizzarlo lambisca mai la sua psiche.

Concludendo, il dolo eventuale ben può essere espresso attraverso la cosiddetta “seconda formula di Frank”, in base alla quale l’agente deve aver così ragionato: “sia presente o meno quella circostanza, avvenga questo o quest’altro, io agisco comunque”.

4. La decisione della Corte

Fatte tali doverose premesse sugli istituti rilevanti, occorre a questo punto soffermarsi sulla soluzione prospettata dagli Ermellini in merito al caso in esame.

I Giudici di Piazza Cavour mostrano, sin dalle prime pagine della motivazione, di aderire in toto agli insegnamenti derivanti dal caso ThyssenKrupp in tema di dolo eventuale.

Si legge infatti in sentenza: “Per la configurabilità del dolo eventuale, occorre la dimostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta (rappresentata, nel caso in esame, dalla morte del paziente come conseguenza del ritardo nell’accesso alle terapie oncologiche), aderendo psicologicamente ad essail momento volontaristico, consistente nella determinazione di aderire all’evento oggetto di rappresentazione, costituisce, anche nel dolo eventuale, una componente fondamentale dell’atteggiamento psichico dell’agente, nel senso che il dolo eventuale implica non già la semplice accettazione di una situazione di rischio, ma l’accettazione di un evento definito e concreto, che deve essere stato ponderato dall’autore del reato come costo (accettato) dell’azione realizzata per conseguire il fine perseguito[7]”.

I Giudici, in sintesi, rigettano in toto la teoria dell’accettazione del rischio, aderendo all’accezione volontaristica del dolo eventuale, sulla scia degli insegnamenti delle Sezioni Unite. Nel farlo, gli Ermellini prendono le mosse anche da una risalente e ben nota pronuncia (il caso dei coniugi Oneda), relativa a due genitori, Testimoni di Geova, i quali rifiutarono la somministrazione di emotrasfusioni nei confronti della figlia, malata di talassemia e bisognosa di un continuo riciclo di sangue, con tale condotta cagionandone la morte.

Ebbene, già negli anni ’80, la Cassazione aveva mostrato una certa sensibilità nell’utilizzare l’elemento della volontà quale requisito cardine del dolo eventuale, pervenendo ad una responsabilità in capo ai coniugi per omicidio colposo, aggravato dalla previsione dell’evento, in quanto giammai i genitori della piccola, anche per effetto delle “rassicurazioni” derivanti dai provvedimenti coercitivi di sottoposizione obbligatoria alle cure, avrebbero potuto aderire ad un evento così tragico, quale la morte della figlia, pur di perseguire la loro finalità, e segnatamente quella di non contraddire le proprie credenze religiose.

Muovendo da tali premesse, gli Ermellini, nel caso di cui si discorre, confermano la sentenza d’Appello, negando che la condotta del naturopata possa essere inquadrata nel reato di omicidio volontario.

In primo luogo, i Giudici escludono già a monte l’elemento rappresentativo, poiché l’imputato, semplice naturopata e non certo medico (circostanza che conferma l’imputazione per abusivo esercizio della professione), non possedeva alcuna competenza tecnico-scientifica e, per effetto di ciò, non era in grado di rendersi conto da un lato della gravità della diagnosi, e, dall’altro lato, del necessario e tempestivo accesso alle terapie, che avrebbero evitato la morte della paziente. Secondo la Corte, in conseguenza, difetterebbe la rappresentazione della concreta possibilità della morte della donna: “Tale dato è pacifico (…) e costituisce, da una parte, riscontro dell’assenza di dolo omicidiario e, dall’altra, la colpa dell’imputato[8]”.

Gli Ermellini, in ogni caso, si concentrano anche sul profilo della volizione dell’evento morte, requisito imprescindibile per l’integrazione del dolo. Ed anche sotto tale ultimo profilo, i Giudici escludono recisamente che l’imputato abbia accettato la morte della donna quale prezzo da pagare pur di raggiungere i propri fini: l’assenza di conoscenze mediche, unitamente alla sottovalutazione della malattia della donna, nonché la considerazione, da parte del reo, della naturopatia come mera cura alternativa alla scienza medica, impediscono di poter addebitare all’agente quella sicura adesione all’evento, necessaria all’integrazione del dolo eventuale.

La Corte di Cassazione, dunque, rigettando i ricorsi, esclude la ricorrenza, nella specie, del delitto di omicidio volontario.

5. Note conclusive

La pronuncia in commento dimostra di utilizzare sapientemente gli insegnamenti promananti dalle Sezioni Unite relative al caso Espenhahn.

Il caso oggetto dello scritto, infatti, rappresenta un classico caso “limite”: una condotta censurabile, quella del naturopata, che pur conscio di una diagnosi di sospetto tumore, ha distolto la vittima dalle cure oncologiche, prescrivendole terapie naturali, come tali assolutamente inidonee ad arrestare il decorso della malattia.

Tuttavia, nonostante la grave negligenza dell’imputato e la riprovevolezza del suo agire, non può certo affermarsi che il medesimo abbia voluto la morte della vittima.

Gli Ermellini, sul punto, motivano correttamente: il dolo eventuale richiede un quid pluris rispetto alla mera accettazione di un rischio. Avrebbe dovuto esservi la dimostrazione, per constatare il dolo di omicidio, di una piena adesione del naturopata all’evento delittuoso: l’imputato avrebbe dovuto accettare la morte della vittima come possibile conseguenza del suo agire, mettendola in conto quale prezzo da pagare pur di raggiungere i propri fini, che potevano ricondursi al lucro derivante dal prolungamento delle terapie naturali.

Il dolo è, e sarà sempre, prima di ogni cosa, volontà di cagionare il delitto. E se l’elemento volontaristico non appare pienamente dimostrabile, mai potrà essere contestato il dolo eventuale. Occorre sempre la dimostrazione che l’agente non si sarebbe astenuto dall’agire, neppure se dell’evento lesivo avesse avuto, sin dal principio, piena contezza.

Correttamente, dunque, i Giudici hanno escluso il dolo eventuale di omicidio.

Fonte immagine: medicinaonline.com

[1] Cass. Pen., Sez. I, sentenza n. 26951, 28 Settembre 2020.

[2] Cass. Pen., Sez. Un., sentenza n. 22676, 22 Gennaio 2009.

[3] Il criterio dell’accettazione del rischio, prevalente fino ad una decina di anni or sono, riecheggia tuttavia in alcune recenti pronunce: si veda, ad esempio, Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 40424, 20 Giugno 2019.

[4] G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di Diritto Penale – Parte Generale, Edizione 2020.

[5] Cass. Pen., Sez. Un., sentenza n. 38343, 24 Aprile 2014.

[6] Cass. Pen., Sez. Un, cit.

[7] Cass. Pen., Sez. I, sentenza n. 26951, 28 Settembre 2020.

[8] Cass. Pen., Sez. I, cit.