Articolo pubblicato su Ius in Itinere in data 19/07/2020.

1. La questione giuridica

L’inutilizzabilità rappresenta una delle quattro categorie tassative di invalidità degli atti del procedimento penale (insieme alla nullità, all’inammissibilità ed alla decadenza).

In particolare, la ricordata categoria ha l’effetto di colpire non già la forma dell’atto, bensì il suo valore probatorio: il giudice non potrà utilizzare, ai fini della decisione, la prova acquisita in violazione di legge.

L’inutilizzabilità, nel nostro codice di rito, può essere prevista da specifiche disposizioni di legge (in tal caso, configurando ipotesi di inutilizzabilità “speciale”: ad esempio, l’art. 271 c.p.p., che prevede l’inutilizzabilità delle intercettazioni eseguite fuori dai casi consentiti dalla legge); ma tale causa di invalidità degli atti è prevista anche da una fattispecie generale, in particolare dall’art. 191, comma I, c.p.p., ai sensi del quale: “Le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate”.

Tale disposizione generale ha l’effetto di vietare l’ingresso, nel procedimento penale, di prove risultanti dall’arrogazione di un potere istruttorio che la legge vieta. In conseguenza, se una prova sia stata acquisita in violazione di un divieto stabilito dalla legge, l’effetto dell’inutilizzabilità sarà quello di vietare al giudicante di porre a fondamento della sua decisione quella determinata prova, poiché viziata e contra legem.

Premesso il quadro normativo di riferimento, occorre domandarsi se nel nostro ordinamento possa affermarsi l’esistenza della categoria concettuale dell’inutilizzabilità derivata.

La stessa si riferisce alla possibilità di estendere la violazione di legge dal prodotto probatorio primario a quello derivato dal medesimo: in altri termini, ci si chiede “se la illegittimità di una prova si estenda ad un’altra prova il cui reperimento sia stato determinato dalla prima[1].

Il caso tipico, affrontato in numerose occasioni dalla giurisprudenza, riguarda tendenzialmente i rapporti tra perquisizione e sequestro, e cioè se sia possibile utilizzare, ai fini della decisione, le prove oggetto di un sequestro probatorio, il cui rinvenimento sia stato tuttavia possibile grazie ad una perquisizione illegittima.

Sul punto, come si vedrà nel prosieguo, si sono registrati due opposti orientamenti.

2. La teoria del “male captum, bene retentum

Secondo un primo orientamento, prevalente nella giurisprudenza italiana e formulato per la prima volta dal compianto Franco Cordero[2], l’inutilizzabilità derivata non potrebbe trovare accoglimento nel nostro ordinamento. L’art. 191 c.p.p., infatti, si riferirebbe soltanto alle prove acquisite in via primaria ed in violazione di un divieto previsto dalla legge: l’inutilizzabilità della prova, perciò, non potrebbe in alcun modo estendersi ad altra prova reperita grazie al prodotto primario inutilizzabile.

La teoria del male captum, bene retentum si giustifica alla luce di una valida interpretazione di ordine sistematico.

Infatti, per altra causa di invalidità degli atti, la nullità, la legge prevede espressamente un meccanismo di estensione del suddetto vizio all’art. 185 c.p.p., ai sensi del quale “La nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo”.

Un simile meccanismo non è invero previsto per l’inutilizzabilità: di talchè, si ritiene che l’inutilizzabilità dell’atto antecedente non possa estendersi alla prova successiva, in assenza di una espressa disposizione in materia.

3. La “fruit of the poisonous tree doctrine” e la giurisprudenza americana

Secondo una differente impostazione, l’inutilizzabilità dell’atto si estenderebbe anche a tutte le prove rinvenute per effetto dell’atto illegittimo. In tema di rapporti tra perquisizione e sequestro, ordunque, il nesso intercorrente tra le due attività investigative comporterebbe l’inutilizzabilità delle prove sequestrate, allorquando il sequestro derivi da una perquisizione illegittima.

La “teoria dei frutti dell’albero avvelenato” rappresenta un’interpretazione di derivazione americana, espressa per la prima volta in una risalente sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti (Sentenza Weeks v. United States, datata 1914): attraverso questa regola, l’exclusionary rule si estenderebbe a tutti gli elementi probatori costituenti il frutto di un atto illegittimo.

La ratio di questa impostazione, avvertita dai giudici americani, è quella di “prevenire il diffondersi di tecniche di indagine a tal punto illegittime da provocare un sostanziale offuscamento, una radicale vanificazione delle garanzie costituzionalmente riconosciute all’imputato. Così si afferma che l’esclusione della prova costituisce un efficace deterrente contro perquisizioni irragionevoli[3].

La curiosa espressione utilizzata dalla Corte Suprema rende perfettamente l’idea della questione controversa: l’albero che nasca avvelenato propaga il veleno a tutti i frutti che crescono su di esso; allo stesso modo, i frutti di un atto illegittimo devono ritenersi “avvelenati” e, pertanto, inutilizzabili. Appare evidente la necessità di salvaguardare le garanzie costituzionali riconosciute in capo all’indagato, prime fra tutti, riferendosi all’ordinamento italiano, quelle di cui agli artt. 13, 14 e 111 Cost. Non è un caso che la teoria in discorso, che attua precipuamente una funzione di deterrence, nasca proprio negli Stati Uniti, dove la Polizia Giudiziaria ed il Prosecutor godono di poteri investigativi estremamente ampi.

Ad ogni modo, anche la giurisprudenza americana, nel tempo, ha riformulato la regola esposta nella sentenza Weeks.

Se in una prima fase, infatti, la Corte Suprema asseriva l’inutilizzabilità assoluta di tutto ciò che fosse acquisito in conseguenza di un atto illegittimo di Polizia, già a partire dagli anni ‘80 i Giudici americani frappongono alla regola in esame alcune evidenti limitazioni.

Il primo limite è rappresentato dalla cd. good faith exception: in presenza della buona fede degli agenti di Polizia Giudiziaria, che ritengano di agire in presenza dei presupposti previsti dalla legge, si deve ritenere che la prova frutto di un atto illegittimo sia pienamente utilizzabile. Il caso giurisprudenziale riguardava una perquisizione operata dalla Polizia in presenza di un warrant, risultato poi invalido (poiché carente del requisito della probable cause), grazie al quale si era rinvenuti al sequestro delle prove. Occorre tuttavia sottolineare che la good faith exception risulta applicabile nei soli casi in cui la Polizia si sia rigorosamente attenuta al contenuto del mandato di perquisizione, purtuttavia illegittimo.

Il secondo limite elaborato dalla giurisprudenza statunitense si rinviene nella inevitable discovery doctrine: la prova, pur acquisita in seguito ad atto illecito, non può essere esclusa dagli atti del procedimento se avrebbe comunque potuto venire alla luce per mezzo di procedure legittime. Se l’accusa è in grado di dimostrare che sarebbe esistito un mezzo alternativo e legittimo per reperire la prova, la stessa sarebbe pienamente utilizzabile.

Si può dunque osservare come la giurisprudenza americana abbia elaborato, già da tempo, un principio condivisibile, nell’ottica di salvaguardare le libertà fondamentali dell’indagato nonché, soprattutto, di scoraggiare pratiche investigative poco virtuose, lesive dei diritti costituzionali degli interessati. Sennonchè, la Corte Suprema ha nel tempo limitato la portata della fruit of the poisonous tree doctrine, introducendo limiti stringenti, la cui applicazione si rifà ad un giudizio soggettivo: la buona fede degli agenti di Polizia assume, infatti, una valenza decisiva. Problema, quest’ultimo, non di scarsa valenza, in quanto l’agente potrebbe essere perfettamente a conoscenza dell’illegittimità del warrant e procedere comunque alla perquisizione, acquisendo al compendio probatorio dei dati che sarebbero risultati inutilizzabili.

La teoria dei frutti dell’albero avvelenato, come si vedrà in seguito, ha trovato tenui accoglimenti anche nella giurisprudenza italiana, anche se, purtuttavia, soltanto in chiave dogmatica.

4. L’evoluzione giurisprudenziale italiana

In questa sede, senza pretesa di esaustività, ci si limita ad analizzare le due pronunce cardine in tema di inutilizzabilità derivata; peraltro, nel periodo intercorrente tra le pronunce in discorso, si segnala come la giurisprudenza si sia tendenzialmente appiattita alla teoria del male caputm, bene retentum, escludendo la rilevanza dell’inutilizzabilità derivata nel nostro ordinamento.

La Cassazione si è pronunciata una prima volta a Sezioni Unite in un caso in cui gli operanti avevano proceduto al sequestro di 31 grammi di cocaina nell’abitazione dell’imputato. Tuttavia, il sequestro probatorio derivava da una perquisizione illegittima, poiché effettuata al di fuori delle previsioni di cui all’art. 103, III co., DPR 309/1990: la perquisizione, invero, era stata compiuta senza la preventiva autorizzazione del magistrato ed al di fuori dei “motivi particolari di necessità ed urgenza”.

Sul rapporto tra perquisizione e sequestro e sull’accoglimento dell’inutilizzabilità derivata, la pronuncia in esame sembrerebbe in un primo momento accogliere l’orientamento americano. Si afferma infatti che: “La perquisizione non è soltanto l’antecedente cronologico del sequestro, ma rappresenta lo strumento giuridico che rende possibile il ricorso al sequestro. (…) Ma la stessa utilizzabilità della prova è pur sempre subordinata alla esecuzione di un legittimo provvedimento acquisitivo che si sottragga, in ogni sua fase, a quei vizi che, incidendo negativamente sull’esercizio dei diritti soggettivi irrinunciabili, non possono non diffondere i loro effetti sul risultato che, attraverso quel procedimento, sia stato conseguito[4].

La Suprema Corte ammette dunque, in linea di principio, l’esistenza della categoria di inutilizzabilità oggetto del presente scritto. Nel farlo, peraltro, adotta anche un’interpretazione di ordine sistematico, affermando che l’estensione dell’inutilizzabilità alla prova frutto dell’atto illegittimo costituisce un principio già accolto nell’ordinamento: ci si riferisce, per esempio, all’art. 103, co. VII, c.p.p., in tema di garanzie del difensore; la disposizione citata, infatti, testualmente sancisce l’inutilizzabilità dei risultati delle perquisizioni qualora queste ultime siano state eseguite in violazione delle garanzie previste dalla norma.

Ciononostante, i Giudici ritengono le prove del caso di specie pienamente utilizzabili: Se è vero che l’illegittimità della ricerca della prova del commesso reato (…) non può, in linea generale, non diffondere i suoi effetti invalidanti sui risultati che quella ricerca ha consentito di acquisire, è altrettanto vero che allorquando quella ricerca, comunque effettuata, si sia conclusa con il rinvenimento ed il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, è lo stesso ordinamento processuale a considerare irrilevante il modo con il quale a quel sequestro si sia pervenuti: in questa specifica ipotesi (…) il sequestro rappresenta un atto dovuto, la cui omissione esporrebbe gli autori a specifiche responsabilità penali[5].

La Cassazione, dopo aver ribadito l’estensione dell’invalidità ai frutti dell’atto illegittimo, sembrerebbe, in quest’ultimo passaggio, contraddirsi: da un lato, l’illiceità del mezzo di ricerca della prova spiegherebbe i suoi effetti sulle prove oggetto del sequestro; dall’altro lato, gli inquirenti sarebbero obbligati a procedere comunque al sequestro, pena una loro responsabilità penale. Nel bilanciamento tra le contrapposte esigenze, dunque, gli Ermellini accorderebbero preferenza alle forze di Polizia, ritenendo le prove sequestrate perfettamente utilizzabili e, di fatto, cacciando dalla finestra la possibilità di introdurre nel nostro ordinamento il meccanismo dell’inutilizzabilità derivata.

La seconda pronuncia da esaminare riguarda il recente arresto giurisprudenziale della Corte Costituzionale sul tema di cui si discorre.

Era stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 191 c.p.p., nella parte in cui, secondo il diritto vivente, non prevedeva che la sanzione dell’inutilizzabilità riguardasse anche gli esiti probatori, ivi compreso il sequestro del corpo del reato, degli atti di perquisizione ed ispezione illegittimi. In altre parole, il giudice a quo richiedeva alla Consulta un intervento al fine di concedere finalmente spazio all’inutilizzabilità derivata all’interno del diritto processuale penale.

Il casus decisis era sostanzialmente analogo a quello che aveva interessato la pronuncia a Sezioni Unite dianzi analizzata: violazione dell’art. 103 del DPR 309/1990 e conseguente sequestro di sostanze stupefacenti al di fuori dei casi consentiti dalla legge.

Il Giudice delle Leggi dichiara inammissibile la questione, cassando ogni possibilità di riconoscimento, quantomeno in via meramente interpretativa, dell’inutilizzabilità derivata: “(…) è lo stesso sistema normativo ad avallare la conclusione secondo la quale, per la inutilizzabilità che scaturisce dalla violazione di un divieto probatorio, non possa trovare applicazione un principio di inutilizzabilità derivata. (…) Del resto, è ricorrente in giurisprudenza l’affermazione secondo la quale tale principio, valido per le nullità, non si applica in materia di inutilizzabilità[6].

La chiusura della Corte sulla questione si giustifica alla luce di due argomentazioni.

In primis, viene richiamato il cavallo di battaglia dell’orientamento inaugurato da Franco Cordero: l’estensione generale del vizio agli atti successivi e dipendenti dall’atto viziato, è previsto dalla legge soltanto in relazione alle nullità, giusta il disposto dell’art. 185 c.p.p., e non anche alle inutilizzabilità: soltanto l’intervento del legislatore potrebbe, secondo la Corte, ovviare al punto controverso.

Inoltre, secondo i Giudici di legittimità, se è pur vero che l’inutilizzabilità derivata riveste una comprensibile funzione di deterrence, è altrettanto vero che tale obiettivo viene comunque realizzato a valle, mediante la diretta persecuzione penale o disciplinare degli agenti di Polizia Giudiziaria che abbiano compiuto abusi negli atti di indagine.

Ad ogni modo, con la pronuncia in esame, sembrerebbe chiudersi definitivamente la possibilità di accoglimento, in giurisprudenza, della fruit of the poisonous tree doctrine.

5. Conclusioni e considerazioni critiche

L’analisi dell’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale in tema di inutilizzabilità derivata non può esimere da alcuni rilievi critici.

Come si è osservato, già negli Stati Uniti, in cui da sempre è forte l’esigenza di estendere l’exclusionary rule ai frutti dell’atto invalido, la giurisprudenza della Corte Suprema ha chiaramente limitato la rilevanza, in concreto, della fruit of the poisonous tree doctrine attraverso i menzionati correttivi.

Nell’ordinamento italiano, invero, non si può fare a meno di notare come la giurisprudenza abbia compiuto dei passi indietro rispetto all’arresto interpretativo delle Sezioni Unite del 1996.

La citata pronuncia, infatti, se è pur vero che ha escluso, nel caso sottopostole, l’inutilizzabilità delle prove oggetto del sequestro, ha chiaramente statuito che l’inutilizzabilità derivata può trovare licenza nel nostro ordinamento, in quanto l’atto illegittimo estenderebbe i suoi effetti sulle prove, in tal guisa inutilizzabili. In tal modo, le Sezioni Unite, pur contraddicendosi, avrebbero aperto uno spiraglio per un compiuto riconoscimento della categoria di invalidità in discorso.

Eppure, la giurisprudenza successiva si è sostanzialmente attestata sull’inesistenza dell’inutilizzabilità derivata; ed infine, la Corte Costituzionale sembra dare il colpo di grazia conclusivo, testualmente affermando che sarebbe lo stesso sistema normativo ad escludere la ricorrenza del principio di cui alla teoria dei frutti dell’albero avvelenato.

Un simile orientamento non può lasciare soddisfatti gli interpreti; la mancata estensione dell’inutilizzabilità alle prove rinvenute per effetto di atti illegittimi, per vero, rischia di traghettare i procedimenti penali ad una pericolosa deriva, rappresentata dalla violazione sistematica, da parte degli inquirenti, delle garanzie difensive e di libertà dell’imputato. Nella sicurezza di non veder intaccati i risultati probatori, infatti, le forze dell’ordine potrebbero sistematicamente violare le norme previste per le perquisizioni, senza che le investigazioni in atto subiscano alcun danno (ferme restando, tuttavia, le sanzioni applicabili nei confronti di questi ultimi. Sarebbe peraltro interessante conoscere i dati statistici relativi alle sanzioni irrogate nei confronti della Polizia Giudiziaria, dato l’ampio risalto fornito sul punto dalla Consulta in tema di deterrence).

In relazione all’argomentazione contraria della giurisprudenza, basata principalmente sull’inesistenza, per le inutilizzabilità probatorie, di una norma equiparabile all’art. 185 c.p.p., coglie nel segno la critica mossa da Ferrua: invero, l’art. 185 c.p.p. non attiene alle prove, né ad una dipendenza causale tra atti. La dipendenza ex art. 185 c.p.p. è una dipendenza di tipo meccanico, che si profila quando un atto, nella previsione legislativa, costituisce il presupposto, la condicio sine qua non per il compimento di un atto (ad esempio, sono nulli gli atti del dibattimento quando è invalida la citazione)[7]”. Critica quest’ultima che appare condivisibile, in quanto le situazioni in esame non sono affatto sovrapponibili: ragion per cui, il riferimento all’art. 185 c.p.p. non appare decisivo.

Si ritiene pertanto necessario, come peraltro rilevato dalla Corte Costituzionale, l’intervento del legislatore, attraverso l’introduzione di una disposizione ad hoc che modifichi il codice di rito, estendendo l’inutilizzabilità alle prove derivanti dagli atti illegittimi. Contrariamente, la sanatoria ex post del materiale probatorio non farà che incentivare gli abusi della Polizia Giudiziaria, a discapito di ogni tutela costituzionale dell’imputato.

D’altro canto, è stato lo stesso Cordero a suggerire, seppur avversandola, una riforma dell’art. 191 c.p.p.: “Sarebbe diverso se l’art. 191, anzichè usare il verbo tecnico “acquisire”, contemplasse le prove “scoperte” o “raccolte” grazie ad atti illeciti[8].

[1] P. Tonini, Manuale di Procedura Penale, Edizione 2019

[2] F. Cordero, Tre studi sulle prove penali, 1963

[3] R. Gambini Musso, Il processo penale statunitense – soggetti ed atti, Edizione 2009

[4] Cass. Pen., Sez. Un., sentenza n.3268, 16 Maggio 1996

[5] Cass. Pen., Sez. Un., sentenza n.3268, 16 Maggio 1996

[6] Corte Cost., sentenza n. 219, 3 Ottobre 2019

[7] P. Ferrua, “Perquisizioni illegittime e sequestro: una singolare dichiarazione di inammissibilità dagli effetti dissuasivi”, Novembre 2019, disponibile qui: https://discrimen.it/wp-content/uploads/Ferrua-Perquisizioni-illegittime-e-sequestro.pdf 

[8] F. Cordero, Procedura penale, 2012