Articolo pubblicato su Ius in Itinere in data 01/02/2021.

L’art. 323 ter c.p., rubricato “Causa di non punibilità” ed inserito nel novero dei delitti contro la Pubblica Amministrazione, è stato introdotto dalla Legge 9 gennaio n. 3, nota ai più con la famigerata denominazione di “Legge Spazzacorrotti”, impianto normativo sorto con il dichiarato intento di porre un freno al fenomeno corruttivo dilagante nel Paese, attraverso un inasprimento della disciplina, sia sostanziale che sanzionatoria, relativa ai delitti di corruzione (ed intervenendo altresì, come tristemente noto, sull’istituto della prescrizione del reato).

La disposizione in commento così recita: “Non è punibile chi ha commesso taluno dei fatti previsti dagli articoli 318, 319, 319 ter, 319 quater, 320, 321, 322 bis, limitatamente ai delitti di corruzione e di induzione indebita ivi indicati, 353, 353 bis e 354 se, prima di avere notizia che nei suoi confronti sono svolte indagini in relazione a tali fatti e, comunque, entro quattro mesi dalla commissione del fatto, lo denuncia volontariamente e fornisce indicazioni utili e concrete per assicurare la prova del reato e per individuare gli altri responsabili.

La non punibilità del denunciante è subordinata alla messa a disposizione dell’utilità dallo stesso percepita o, in caso di impossibilità, di una somma di denaro di valore equivalente, ovvero all’indicazione di elementi utili e concreti per individuarne il beneficiario effettivo, entro il medesimo termine di cui al primo comma.

La causa di non punibilità non si applica quando la denuncia di cui al primo comma è preordinata rispetto alla commissione del reato denunciato. La causa di non punibilità non si applica in favore dell’agente sotto copertura che ha agito in violazione delle disposizioni dell’articolo 9 della Legge 16 Marzo 2006, n.146”.

La norma dianzi citata, dunque, prevede la possibilità per l’agente (che si sia macchiato di uno dei “delitti presupposto”) di evitare una condanna penale qualora, in estrema sintesi, collabori tempestivamente, volontariamente e proficuamente con l’Autorità Giudiziaria.

Non vi sono particolari ragioni per dubitare sulla natura giuridica dell’istituto: ed invero, la stessa presenta i chiari tratti della causa di non punibilità in senso stretto, in quanto si innesta su di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole; la non punibilità, infatti, viene ancorata alla precisa scelta del legislatore di ritenere non punibili i fatti corruttivi in presenza di una tempestiva collaborazione del correo con le autorità.

La non punibilità si fonderebbe, perciò, su di una mera valutazione di opportunità, in un’ottica di rapporto costi-benefici per l’Amministrazione della Giustizia e per la gestione della cosa pubblica.

E’ stato sottolineato[1], peraltro, come la causa di non punibilità in discorso sia di natura soggettiva e non oggettiva, con tutte le conseguenze giuridiche in tema di mancata estensione della medesima ad eventuali concorrenti, ai sensi dell’art. 119, I comma, c.p.

La ratio della ridetta causa di non punibilità riposa su due differenti logiche: una prima ragione della sua introduzione è da ricercarsi nel tentativo di rompere il legame solidaristico e di omertà che lega i contraenti del pactum sceleris[2]; il secondo obiettivo, invece, è quello di favorire l’emersione di fatti corruttivi, incentivando l’autodenuncia delle parti del patto, in modo da evitare il consolidarsi degli effetti negativi della negoziazione illecita sull’amministrazione pubblica.

L’art. 323 ter c.p. è applicabile, per espressa previsione legislativa, ad una serie tassativa di delitti: corruzione (passiva ed attiva) per l’esercizio della funzione (ex artt. 318, 320 e 321 c.p.); corruzione (passiva ed attiva) per un atto contrario ai doveri d’ufficio (artt. 319, 320 e 321 c.p.); corruzione (passiva ed attiva) in atti giudiziari (artt. 319 ter e 321 c.p.); induzione indebita (attiva e passiva) a dare o promettere utilità (art. 319 quater c.p.); induzione indebita e corruzione di membri delle Corti Internazionali, degli organi delle Comunità europee o di assemblee parlamentari internazionali o di organizzazioni internazionali e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri (art. 322 bis c.p.); turbata libertà degli incanti (art. 353 c.p.) e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente (art. 353 bis c.p.); astensione dagli incanti (art. 354 c.p.).

Tale elencazione comporta alcune problematiche interpretative.

La prima questione, oggetto di ampio dibattito dottrinale, riguarda la mancata inclusione, nel novero dei delitti assistiti dalla causa di non punibilità, del reato di traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.).

Come noto, detta fattispecie incriminatrice è stata introdotta con la Legge Severino nel 2012, per far fronte ad una evidente metamorfosi del fenomeno corruttivo rispetto al passato; invero, sempre più spesso, il mercimonio della pubblica funzione si concretizza già attraverso un’attività di intermediazione, svolta da soggetti terzi, in una fase prodromica al pactum sceleris; la norma in esame, dunque, realizza una forte anticipazione della soglia di punibilità, rendendo penalmente rilevanti condotte prodromiche all’accordo corruttivo, quali le attività di intermediazione del terzo soggetto che funge da “filtro” tra il privato ed il pubblico ufficiale.

La scelta di non ricomprendere il reato in esame tra quelli assistiti dalla non punibilità suscita molte perplessità, anche in relazione alla ratio dell’art. 323 ter c.p., che, come ricordato, consentirebbe l’emersione dei fenomeni corruttivi in una fase antecedente al consolidamento dell’accordo, in modo da spezzare fin dal principio il legame solidaristico tra corrotto e corruttore ed evitare un grave danno alla cosa pubblica.

Ma se tale è la ragione giustificativa, non si vede per quale motivo il traffico di influenze illecite non debba essere ricompreso nella norma in questione, atteso che l’art. 346 bis c.p. ne condivide in pieno la ratio, cioè la necessità di porre un freno e di sanzionare sul nascere, in un’ottica general-preventiva, i fatti corruttivi.

Un’ulteriore critica al catalogo dei reati presupposto viene mossa nei confronti di alcuni delitti inseriti nell’elencazione di cui all’art. 323 ter c.p.: in particolare, destano attenzione le due fattispecie monosoggettive di cui agli artt. 353 e 353 bis c.p. (turbata libertà degli incanti e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente).

In particolare, il delitto di turbata libertà degli incanti rappresenta pacificamente una fattispecie di pericolo, integrabile anche attraverso la condotta illecita del soggetto che, in concreto, non riesca ad influenzare l’andamento di una gara d’appalto. In particolare, la Suprema Corte ha ripetutamente affermato che: “il reato di turbata libertà degli incanti è reato di pericolo che si configura non solo nel caso di danno effettivo, ma anche nel caso di danno mediato e potenziale, non occorrendo l’effettivo conseguimento del risultato perseguito dagli autori dell’illecito, ma la semplice idoneità degli atti ad influenzarne l’andamento della gara[3]”.

Ebbene, in tale ipotesi, il reo potrebbe, nel rispetto dei limiti temporali previsti, autodenunciarsi, limitandosi ad assicurare la prova del reato, ma senza determinare la restituzione di alcuna utilità, né individuando correi responsabili (in quanto inesistenti).

Secondo parte della dottrina, attraverso tale comportamento, l’agente “adempirebbe (formalmente) agli obblighi previsti dall’art. 323 ter e finirebbe per sfuggire alle conseguenze penali, senza arrecare alcun vantaggio effettivo per l’attività investigativa[4]”.

Tale opinione appare corretta, tanto più se si osserva come il legislatore abbia ritenuto di non includere nel catalogo dei delitti presupposto ulteriori fattispecie monosoggettive, tra le quali spicca la mancanza del reato di istigazione alla corruzione, ex art. 322 c.p.

La fattispecie or ora citata realizza anch’essa una forte anticipazione della punibilità, punendo condotte antecedenti addirittura ad un tentativo di corruzione, realizzate da un agente (privato o pubblico ufficiale) che istighi altro soggetto alla realizzazione di un accordo corruttivo, senza purtuttavia riuscire nel suo intento a causa del rifiuto espresso dalla controparte.

Nella visione (per vero condivisibile) del legislatore, non avrebbe avuto alcun senso estendere la non punibilità anche a tali condotte monosoggettive, in quanto l’agente, dopo aver infruttuosamente tentato di corrompere, avrebbe potuto autodenunciarsi al solo fine di godere degli effetti assolutori dell’art. 323 ter c.p.; tutto ciò, ancora una volta, senza apportare alcun beneficio per l’Autorità Giudiziaria.

Come osservato da autorevole dottrina, dunque, vi è un evidente cortocircuito logico, tale per cui da un lato si esclude (correttamente) l’estensione dei benefici dell’art. 323 ter c.p. a talune fattispecie monosoggettive, ma, dall’altro lato, si inseriscono nel catalogo talaltri reati che possono essere commessi da un unico agente, in assenza di concorrenti[5].

La causa di non punibilità, ad ogni modo, opera sulla base di 4 fondamentali condizioni (più una quinta, ma in senso negativo):

1. Requisito temporale: la denuncia del delitto previsto dal catalogo deve avvenire prima di avere notizia che nei propri confronti siano in corso le indagini e, comunque, entro quattro mesi dalla commissione del reato.

Si notano, dunque, due fondamentali limiti: un primo limite oggettivo, determinato dal lasso temporale entro cui deve avvenire l’autodenuncia, ed un secondo limite, questa volta soggettivo, determinato dalla mancata conoscenza dell’eventuale iniziativa giudiziaria nei confronti dell’agente.

La conoscenza delle indagini, infatti, frustrerebbe la ratio della norma che, come già ribadito, attiene all’emersione di fatti corruttivi non noti; ed inoltre, consentire all’autore del reato di autodenunciarsi anche a seguito della conoscenza delle indagini, permetterebbe al medesimo di scegliere opportunisticamente la via della resipiscenza, al solo fine di fruire della causa di non punibilità e di evitare un processo penale.

2. Volontarietà della denuncia: il fatto deve essere denunciato in assenza di circostanze costrittive, senza che ciò comporti un autentico pentimento da parte dell’autore del fatto di reato.

3. Utilità della denuncia: il denunciante deve essere in condizione di assicurare agli inquirenti la prova del reato e l’individuazione dei correi, fornendo informazioni utili a tali fini (elemento, quest’ultimo, al quale si ricollega la problematica, dianzi evidenziata, dell’inserimento nel catalogo dei reati presupposto di talune fattispecie incriminatrici monosoggettive).

4. Messa a disposizione dell’utilità percepita o di una somma equivalente: anche tale condizione deve realizzarsi nel termine di 4 mesi dal compimento del fatto.

Tale ultimo requisito pone alcune problematiche.

Ed invero, mentre nessun problema desta il caso della messa a disposizione della “mazzetta” da parte del corrotto, la situazione appare complessa quando l’utilità consista in altro (l’offerta di un posto di lavoro, l’anticipazione di appuntamenti altrimenti distanti nel tempo, e così via).

Siccome la messa a disposizione dell’utilità rappresenta uno dei requisiti tassativi per l’applicazione dell’art. 323 ter c.p., quale comportamento potrà esigersi dal soggetto che si autodenunci, qualora l’utilità non consista in un vantaggio materiale?

Secondo le prime interpretazioni, “in base al noto brocardo ad impossibilia nemo tenetur (…) in tutti i casi in cui l’utilità non sia in alcun modo monetizzabile, si possa prescindere dalla restituzione, senza con ciò incidere sulla possibilità di godere dell’impunità[6]”.

Si ritiene di condividere l’opinione citata, in quanto in alcun modo l’autore del reato sarebbe in grado di mettere a disposizione un’utilità soltanto morale: la mancata estensione della causa di non punibilità a tali fatti non permetterebbe l’emersione dei fenomeni corruttivi sfuggiti alle autorità.

Da ultimo, si osserva brevemente come l’art. 323 ter c.p. preveda alcuni limiti negativi all’applicazione della causa di non punibilità.

La prima ipotesi è rappresentata dall’impossibilità di godere degli effetti favorevoli della norma in esame da parte di chi procede alla denuncia in modo preordinato rispetto alla commissione del reato denunciato. Ipotesi, per la verità, di non agevole individuazione, posto che presuppone un’indagine sul carattere finalistico della condotta del denunciante.

La seconda ipotesi tipizzata prevede l’esclusione dell’applicazione dell’art. 323 ter c.p. all’agente sotto copertura che agisca in violazione dei limiti previsti dalla legge.

Tirando le fila del discorso, si è visto come l’art. 323 ter c.p., introdotto dalla Legge Spazzacorrotti, nasce con il dichiarato intento di incentivare la rottura del vincolo omertoso tra corruttore e corrotto, nonché con l’obiettivo di favorire l’emersione del fenomeno corruttivo dei pubblici agenti.

Tuttavia, come si è osservato, l’introduzione di tale norma ha portato con sé numerosi nodi interpretativi di difficile soluzione.

La ridetta causa di non punibilità, infatti, rischia di trasformarsi da incentivo a strumento da evitare, attese le conseguenze negative per l’agente che procede ad autodenunciarsi.

In primo luogo, a seguito dell’autodenuncia, il reo verrà certamente iscritto nel registro delle notizie di reato e nei suoi confronti saranno svolte le indagini, che dureranno fintantoché il pubblico ministero non decida di chiedere l’archiviazione; richiesta che, ovviamente, sarà sottoposta al vaglio del giudice per le indagini preliminari. La pendenza delle indagini risulterà ordunque gravosa per il reo, anche da un punto di vista pratico: si pensi a tutti i problemi conseguenti alle iscrizioni risultanti dai carichi pendenti.

Ma non è tutto. L’agente rischia, inoltre, di incorrere nello stigma sociale derivante dalla resipiscenza: si pensi al caso in cui l’emersione del fatto corruttivo finisca sui giornali. Ed allora, il clamore derivante dalla notizia, presente sulla carta stampata, rischierebbe di infangare per sempre l’immagine del funzionario, che abbia agito, in verità, correttamente, autodenunciandosi.

Da ultimo, la non punibilità sul piano penale non risparmierebbe l’autore del fatto illecito dalle inevitabili conseguenze sul piano disciplinare ed amministrativo, che potrebbero minarne in modo irreversibile la carriera professionale e, ancora una volta, l’immagine pubblica.

Ecco che, dunque, l’art. 323 ter c.p., per quanto introdotto sotto i migliori auspici, rischia di essere poco aderente alla realtà. Le difficoltà nell’integrazione di tutti i requisiti previsti dalla norma, accompagnato dal rischio di subire un processo penale, in uno con i danni all’immagine del corruttore/corrotto, portano a ritenere che, con ogni probabilità, l’autore del fatto corruttivo sarà disincentivato dall’autodenunciarsi, mantenendo vivo proprio quel legame omertoso con il concorrente nel reato che la causa di non punibilità cercherebbe, invece, di spezzare.

[1] V. Mongillo, La Legge “Spazzacorrotti”: ultimo approdo del diritto penale emergenziale nel cantiere permanente dell’anticorruzione, disponibile sulla rivista Diritto Penale Contemporaneo, n. 5/2019.

[2] Vedi la Relazione illustrativa al disegno di legge n. 1189.

[3] Cass. Pen., Sez. VI, sentenza n. 17367, 13 Febbraio 2015.

[4] R. Cantone, A. Milone, Prime riflessioni sulla nuova causa di non punibilità di cui all’art. 323 ter c.p., disponibile sulla rivista Diritto Penale Contemporaneo, n. 6/2019.

[5] R. Cantone, A. Milone, op. cit.

[6] R. Cantone, A. Milone, op. cit.